Le vent se lève… il faut tenter de vivre!
L’air immense ouvre et referme mon livre

Così inizia l’ultima delle stanze del “cimitero marino” di Paul Valéry; che tradotta sarebbe più o meno:
S’alza il vento, bisogna tentare di vivere / Apre e chiude il mio libro l’aria infinita

Alcuni, probabilmente avranno già trovato in questi versi il rimando al bellissimo e omonimo film di Hayao Miyazaki “Si alza il vento”; mentre altri ancora più profondamente avranno trovato questa stessa frase incisa sulla tomba dell’ineguagliato Gian Maria Volontè.

Voglio, però, concentrarmi principalmente sul primo illustrissimo nome e parlarvi di quello che per me è un elemento immancabile della fotografia, ma più in generale delle arti visive e sequenziali.

Tutto si muove, tutto si ferma

La differenza sostanziale tra cinema e fotografia è, ovviamente, la trasformazione da immagine fissa a sequenza di fotogrammi, una differenza che fa divergere oppositamente le due discipline quasi subito dopo l’origine comune; ma non è precisamente il punto focale della mia riflessione.

Quello di cui parlo è l’abilità di narrare e rappresentare il movimento, elemento essenziale per la presenza della vita, attraverso il brulicare di elementi sulla scena, che siano essi protagonisti della stessa o in maniera collaterale.

Un turbinare di oggetti, il movimento fluido di capelli, una tenda sollevata anche quando le finestre sono chiuse; sono tutte rappresentazioni dell’ elemento più ricorrente del Sensei Miyazaki, lo stesso elemento che è racchiuso nel nome stesso del grandissimo studio creativo fondato da lui stesso e il suo collega Isao Takahata

Studio Ghibli, rievocando il caldo vento che noi chiamiamo più comunemente scirocco.

La pellicola che germoglia

Come dicevo più su, tutto quello che si muove col vento vive (persino le macchine volanti inanimate; una delle più grandi passioni di Miyazaki come da lui stesso confermato) e quando questa vita raggiunge il culmine inizia a ribollire letteralmente come in un brodo primitivo che inonda anche lo spettatore creando spesso un effetto fluido quasi “disgustoso”

Già dal primo film, Nausicaa nella valle del Vento (1986) questo elemento è protagonista dell’intera storia imperniata proprio sulla preservazione della natura nel suo stato più primitivo attraverso un legame empatico che trascende addirittura la scienza.

Anche qui, il vento e l’aria svolgono un ruolo fondamentale rivestendo anche se invisibili il ruolo di messaggeri inizialmente di male, subendo passivamente il male dell’uomo e poi di liberatori.

Ad ogni film questo elemento viene addirittura personificato come nel Mio vicino Totoro del 1988 (la mascotte dell’intero studio) e ne la Principessa Mononoke del 1997 trasformandosi in creature ultraterrene dai poteri direttamente legati alla natura a metà tra la mitologia medioevale europea e quella “animista” shintoista

Navi volanti e castelli nel cielo

Se il vento è dispensatore di vita, allora è giusto che la vita stessa metta le ali.
Che siano piumate o di metallo (come dicevo più su) poco importa, cavalcare le correnti d’aria rende perfettamente il concetto che intendevo: fermare una folata nel tempo necessario a creare una immagine di assoluta libertà.

In Laputa (sopra) tutta la storia è praticamente ambientata nel cielo, in un regno fatto di giardini antichi e correnti d’aria che portano echi di storie passate, mentre in Si alza il vento (sotto) si respirta l’assoluta libertà creativa e a tratti autobiografica dell’autore; ma in entrambi i casi la freschezza dell’aria rarefatta riesce addirittura ad alleggerire l’incombenza di una tecnologia aggressiva e con una delicatezza fuori dal comune.

O come in Porco rosso in cui, la libertà viene espressa politicamente e marcatamente come scelta di vita da trascorrere letteralmente tra i venti più alti anche durante la seconda guerra Mondiale

“Sfiora le campagne, accarezza sui fianchi le montagne”

Eppure il vento soffia ancora, spruzza l’acqua alle navi sulla prora e sussurra canzoni tra le foglie;
bacia i fiori li bacia e non li coglie

L’ultimo capitolo (finora, s’intende) ci ha regalato una traduzione ancora più intensa di “fotografare il vento” più visionaria, equidistante nel passato e nel futuro in cui si attraversano fasi di un sogno lungo quasi due ore.

Sto parlando ovviamente de Il ragazzo e l’airone uscito appena 16 giorni fa nelle nostre sale cinematografiche, in cui si susseguono domande esistenziali e citazioni classiche miste a sfondi che sembrano direttamente ricalcare Dalì, Böcklin e di Rembrandt.

Ma più di tutto c’è racchiusa all’interno l’intera simbologia aerea che Miyazaki ha utilizzato in questi ultimi 40 anni: componenti per aeroplani per la guerra che fa da sfondo silenzioso e drammatico al film, un Virgilio airone cenerino caotico neutrale, stormi di parrocchetti e pellicani, nuvole maestose all’orizzonte, lampadari di carta che ricordano gli Shide dei templi shintoisti eccetera

Non vi dirò altro, a parte che probabilmente se avessero lasciato il titolo originale Giapponese (君たちはどう生きるか – E voi come vivrete?) ci sarebbero molti meno problemi a comprendere meglio la narrazione non lineare dell’opera.

Vi dirò solo che, retorica a parte, il risultato è davvero unico

E il vento?

eppure sfiora le campagne,
accarezza sui fianchi le montagne e scompiglia le donne fra i capelli
corre a gara in volo con gli uccelli

[Pierangelo Bertoli – Eppure Soffia]